Modernariato satirico. Nella prigione br di via Fani, Aldo Moro con grembiule da massaia è incastonato dentro pile altissime di piatti. Sospira: «Speriamo che la P. S. arrivi presto. Qui mi fanno sempre lavare i piatti!». I comunisti mangiano i bambini? Enrico Berlinguer a tavola, con un ossetto infilato fra le labbra a mo’ di stuzzicadenti, ordina a Cossutta: «Armando, poi passami il sale». Titoli a scatola sulle prime pagine del Giorno, della Stampa, di Paese Sera annunciano con sgomento: «Clamoroso arresto di Ugo Tognazzi, è il capo delle BR». Forse qualcuno se le ricorda. Sono vignette del Male, la rivista di Vincino che scaricò sugli anni di piombo tonnellate di sarcasmo e quintali di scurrilità satiriche. Roba dell’altro secolo. Lontananza di anni luce. Vincino e i suoi compagni Pino Zac, Sergio Saviane, Jacopo Fo, Riccardo Mannelli e Vauro Sanesi potrebbero mai replicare, oggi, quella loro furia devastatrice? E potrebbero scuotere impunemente le fondamenta del ben pensare e del buon sentire? Guardiamoci intorno: la satira sembra diventato un lavoro per signorine. Non ha quasi più artigli. Invece di sfregiare, accarezza. E’ la spia di un bel suicidio di massa?
«Ma no, ma no» risponde risoluto Dario Fo. Il padre di tutti i satirici avverte che la satira cambia con i tempi e dipende «dalla risposta del potere». Spiega: «Se fai una satira blanda, il potere evita di intervenire, finge di ignorarti. Ma appena tocchi il nervo, il potere non tiene più e comincia l’attacco. Ti toglie la tv e i teatri, ti taglia l’erba sotto i piedi, di toglie l’aria. Che cosa ha fatto Berlusconi? Ha tolto l’aria. Biagi ha sofferto come un cane non per essere stato estromesso dalla tv, ma perché gli è crollata addosso la sua serenità. Si era convinto di vivere nel migliore dei mondi e si è dovuto ricredere. Il potere davanti alle battute o davanti alla verità imbestialisce».
A ulteriore dimostrazione della tesi, Fo cita il concertone del primo maggio a Roma. Da quella festa del lavoro, dei sindacati, dei giovani è arrivato un pessimo segnale. Allude alle parole di Andrea Rivera, a quel suo pseudo attacco al Vaticano. «Si è limitato a raccontare delle cose», ricorda Fo. «Ha parlato del capo della banda della Magliana sepolto sontuosamente in una basilica; dei funerali religiosissimi concessi a Pinochet e a Franco. Ha detto cose vere, ma si è aperto il cielo. E’ un terrorista! Un vescovo ha provato a gettare acqua sul fuoco, ma è stato subito rimesso in riga dai superiori. L’atteggiamento peggiore è stato quello dei sindacati, che hanno biasimato le battute, hanno insultato il ragazzo, facendo capire che la Chiesa è intoccabile».
Ecco, il primo maggio è come se fossimo saliti tutti sulla macchina del tempo e ci fossimo trasferiti all’epoca del Savonarola, mandato al rogo non per le idee sul cosmo, sul fatto che non credeva alla tesi geocentrica, ma perché faceva battute contro la Chiesa. «Il potere, purtroppo è questo», sospira Fo. Cita Federico II di Svevia e l’editto Contra jogulatores obloquentes. Era una legge contro «i giullari che diffamano e insultano»: permetteva a tutti i cittadini di bastonarli, anche di ammazzarli senza rischiare un processo. I giullari, secondo Federico, non dovevano far parte della comunità. «Andrea Rivera è stato censurato anche da quelli che lo avevano assunto».
Fare satira dunque può essere pericoloso. Ma qual è il pericolo dei pericoli? «Non è la censura, è l’autocensura. L’ho provato sulla mia pelle negli anni Settanta, quando mi misi fuori del coro e creai prima Nuova Scena e poi La Comune. In dieci anni abbiamo fatto migliaia di spettacoli nelle fabbriche occupate, nelle chiese sconsacrate. Fummo vittima di una repressione spaventosa. Io ho subito quaranta processi e sono stato perfino in carcere a Sassari, con la città fuori delle sbarre che, guidata da Franca Rame, faceva una specie di happening in mio favore mentre i detenuti appesi alle sbarre cantavano Bandiera rossa».
Quindi, oltre che pericolosa per chi la pratica, la satira è anche faticosa. «E’ come stare su una barca a vela e andare controvento, capovolgendo le leggi della fisica. Ti dà un piacere... è magico andare controvento. Quando la satira funziona è magica».
Su questa frase Dario Fo quasi canta. Evidentemente, nell’istante in cui la pronuncia risente le platee respirare sull’onda dello sghignazzo. Chi l’ha provato sa che è una specie di miracolo. Ma è diventato raro. I satirici sono diventati avari e la satira non sembra scoppiare di salute. «L’involuzione è gravissima», ammette Fo, che per sottolineare il concetto ricorda ancora il concertone di Roma, osserva che le obiezioni di Rivera sono arrivate in un momento delicatissimo per il Vaticano, costretto a confrontarsi con la crisi delle vocazioni e con le chiese vuote di giovani. Però aggiunge: «Noi italiani non sappiamo vivere senza satira, fa parte del nostro modello culturale. Anche se ci sono tempi bui, poi si tira fuori la testa per respirare».
Si fa, in sostanza, come gli spaventati di cui parla l’attore-autore Ascanio Celestini: ci si copre per paura di essere scoperti. Ecco, dice Fo, «per salvarci, dobbiamo far finta di essere morti, come quando arrivano i Testimoni di Geova e uno si appiattisce sul pavimento per non farsi trovare. Io sono morto perché voglio continuare a fare satira. E’ una tecnica. Poi, quelli che hanno grinta vengono fuori. Avere grinta non significa essere bravi attori. Ci sono bravissimi attori del tutto incapaci di fare satira. La grinta a cui penso io ti induce ad andare per vela col vento contrario. E’ difficile, lo sappiamo, ma quando ci riesci è una tale goduria...».
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